Recidiva: non sempre consegue un aumento sanzionatorio e aumento del termine di prescrizione

A cura di Federica Tartara

In data 15 maggio 2019, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la pronuncia n. 20808 è intervenuta a dirimere un contrasto giurisprudenziale rispetto la rilevanza, in termini di calcolo del termine di prescrizione, di precedenti penali che, dal giudice di merito, erano stati considerati ai soli fini del diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, senza comportare alcun aumento di pena.
Ai sensi dell’art. 157 c.p. per calcolare il tempo necessario a prescrivere un reato si deve tener conto del massimo della pena edittale stabilita per quel determinato reato (considerato che il termine minimo per i delitti è pari ad anni sei, mentre per le contravvenzioni pari ad anni quattro), senza valutare, ai fini di tale calcolo, eventuali circostanze attenuanti o aggravanti, a meno che si tratti di circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale, per le quali si deve tener conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante.
Nel novero delle predette circostanze aggravanti ad effetto speciale rientrano anche le ipotesi di recidiva aggravata ex art. 99, co. II e IV c.p.
Il contrasto giurisprudenziale nasce dai diversi interventi di modifica dell’istituto della recidiva, sintetizzabili in tre fasi evolutive. Queste fasi hanno portato a distinguere la situazione di recidiva accertata e contestata, cui segue un aumento di pena e, pertanto, un aumento del termine di prescrizione, alla situazione di mera presenza di precedenti penali unicamente valutati ai fini del bilanciamento con le circostanze attenuanti, situazione che non comporta un aumento di pena o un aumento del termine prescrizionale.
La prima fase evolutiva risale all’entrata in vigore del cd. Codice Rocco, periodo in cui l’aumento della pena conseguente alla situazione di reiterazione del reato era automatico e obbligatorio, per cui l’art. 99 c.p. non prevedeva la possibilità per il giudice di escludere l’aggravio di pena.
Con la legge 7 giugno 1974, n. 220, il legislatore abbandona il regime di obbligatorietà della recidiva previsto dal cd. Codice Rocco e riconosce al giudice di merito la facoltà di escludere l’aumento della pena nei casi di recidivanza.
L’ultima fase evolutiva dell’istituto della recidiva è rappresentata dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (cd. Legge ex Cirielli) che, peraltro, modifica anche il criterio di calcolo della prescrizione dei reati.
Date queste premesse, possiamo affermare che, ad oggi, l’accertamento giudiziale dello status di recidivo non deriva più solo dalla sussistenza di precedenti penali. Infatti, il giudice di merito dovrà accertare (e motivare adeguatamente) se il nuovo reato è espressione di inadeguatezza della pena inflitta in precedenza, o della maggiore pericolosità del reo (e applicare quindi un aumento di pena), oppure se determinato da circostanze differenti, nuove, tali da non legittimare l’applicazione della recidiva.
Pertanto, nel caso in cui il giudice di merito tenga in considerazione i precedenti penali al fine di negare la concessione delle circostanze attenuanti generiche ciò non può implicitamente configurarsi come un riconoscimento dello status di soggetto recidivo, cui segue un aumento sanzionatorio.
A questo proposito, l’interrogativo posto alle Sezioni Unite è se una recidiva non contestata, e quindi non produttiva di aggravamento sanzionatorio, possa produrre altri effetti penali quali l’aumento del termine prescrizionale.
Le Sezioni Unite hanno risposto negativamente.
In primo luogo, poiché l’evoluzione giurisprudenziale ha portato a considerare la recidiva come una circostanza aggravante del reato inerente la personalità del reo, che pertanto non differisce nei presupposti applicativi dalle altre circostanze. Questo ha esteso l’applicabilità dell’art. 69 c.p., rubricato “concorso di circostanze aggravanti e attenuanti” alla recidiva, comportando l’esclusione della stessa dal calcolo della prescrizione, atteso che l’art. 157, co III, c.p., esclude espressamente l’applicazione delle disposizioni dell’art. 69 c.p.
In secondo luogo, una diversa soluzione comporterebbe una discrasia tra il trattamento sanzionatorio applicato dal giudice di merito e gli effetti penali che da questo derivano: sarebbe un’interpretazione in contrasto con l’orientamento costituzionale secondo cui il principio di proporzionalità e la finalità rieducativa della pena devono tenere in considerazione la scelta giudiziale di non aumentare il trattamento sanzionatorio