A cura di Sharon Conte
Nel corso di un procedimento penale può capitare che la “prova schiacciante” della colpevolezza o, viceversa, dell’innocenza dell’imputato sia contenuta in un file audio registrato da un soggetto magari direttamente coinvolto nella vicenda processuale.
A questo punto sorge spontaneo chiedersi se è lecito registrare conversazioni tra presenti e se, in questi casi, è possibile introdurre legittimamente le registrazioni nel processo penale.
I dubbi di matrice giuridica traggono fondamento dal contenuto dell’art. 15 della Costituzione che sancisce l’inviolabilità della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, principio in parte derogabile solo in presenza di un atto motivato dell’autorità giudiziaria.
Questo principio deve necessariamente bilanciarsi con l’art. 24 della Costituzione, che sancisce il diritto di difesa, nonché con l’esigenza di prevenzione e repressione dei reati, riconducibile al dettato dell’art. 112 Costituzione.
Tecnicamente, una disciplina frutto del predetto bilanciamento è rinvenibile nelle intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni, ex art. 266 e ss. c.p.p.
Come evidenziato nella sentenza Cass. Pen., sez. II, n. 26766 del 6 luglio 2020, però, non tutti le registrazioni sono assoggettabili a questa disciplina, in quanto occorre distinguere tra:
a) registrazione effettuata da soggetto estraneo al procedimento penale che potrebbe rivelarsi utile a fini processuali;
b) registrazione realizzata da un soggetto che immediatamente informa l’autorità giudiziaria o, analogamente, conversazione telefonica effettuata in presenza delle forze dell’ordine;
c) atto di indagine dell’autorità procedente di natura processuale a cui si applicano le disposizioni in tema di intercettazioni in relazione alle quali si devono rispettare le garanzie e le tutele previste dalla legge.
Con la recente pronuncia n. 10079 del 2024 la Corte di Cassazione, in continuità con la giurisprudenza maggioritaria (Cass. Pen, Sez. II, Sent. del 26/01/2017, n. 3851; Cass. Pen., Sez. II, Sent. del 30/11/2016, n. 50986; Cass. Pen., sez. II, Sent. del 6/07/2020, n. 26766), ha sancito che “le intercettazioni regolate dagli articoli 266 e ss. c.p.p. consistono nella captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più soggetti che agiscono con l’intenzione di escludere altri … tali intercettazioni sono attuate da soggetto estraneo alla comunicazione mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele poste a protezione del suo carattere riservato. Viceversa, la registrazione di un colloquio tra presenti, o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che sia partecipe o comunque ammesso ad assistervi non è riconducibile - quantunque eseguita clandestinamente - alla nozione di intercettazione, ma costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico della quale l’autore può legittimamente disporne anche a fini di prova nel processo, ai sensi dell’articolo 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sullo specifico oggetto o sulla qualità rivestita dalla persona che vi partecipa. Allo stesso modo, la trascrizione della conversazione intercorsa tra la vittima e l’autore di condotte di reato portata a conoscenza delle forze dell’ordine per iniziativa della persona offesa mediante l’inoltro della chiamata in corso sull’utenza della polizia, che provveda immediatamente alla sua registrazione, costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico utilizzabile in dibattimento quale prova documentale”.
Pertanto, l’autore della registrazione può legittimamente disporne “anche ai fini della prova nel processo penale secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p.”, fermi restando i principi generali in tema di ammissione, assunzione e acquisizione della prova.