La corruzione tra privati.

Disciplina e sanzioni del reato di corruzione tra privati e di istigazione alla corruzione previsto dagli artt. 2635 e 2635-bis del codice civile. A cura di Federica Tartara

La corruzione tra privati è un fenomeno molto pericoloso in quanto pregiudizievole del corretto funzionamento dell’economia e della libera concorrenza. Il fenomeno è maggiormente diffuso fuori dall’Italia, tuttavia, è in costante espansione anche nel territorio nazionale.

Dopo una prima esperienza di recepimento delle direttive internazionali, avvenuta nel 2012, il cambiamento rilevante sotto il profilo penale è intervenuto con il D. Lgs. n. 38 del 15 marzo 2017.

Prima del predetto decreto del 2017, la norma di cui all’art. 2635 c.c. (reato curiosamente contenuto nel codice civile) puniva la condotta degli organi sociali che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o di altre utilità compivano o omettevano atti in violazione degli obblighi inerenti il loro ufficio, ovvero inerenti gli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società. In questi casi, più che di corruzione tra privati, si parlava di corruzione degli organi sociali di una società commerciale, alla luce del fatto che l’ambito di applicazione del reato era limitato alle sole società commerciali.
Per la configurabilità della fattispecie, l’atto posto in essere dagli organi sociali doveva essere contrario ai doveri di ufficio o di fedeltà e doveva sussistere nesso causale tra il comportamento e la dazione (o la promessa) di denaro o altre utilità. Inoltre, era essenziale il nocumento alla società (danno economico o di immagine) derivante dal comportamento indebito (Cass. Pen. 6 febbraio 2013, n.5848).

Art. 2635 c.c.
Con il decreto legislativo n. 38 del 15 marzo 2017 è mutata la disciplina dell’art. 2635 c.c. Il primo cambiamento riguarda l’estensione dell’ambito di riferibilità dell’illecito, non più limitato alle società commerciali, ma esteso a tutto il settore delle forme associative di diritto privato e anche agli enti privati non societari.

Inoltre, sono stati ampliati i soggetti attivi e passivi puniti ex art. 2635 c.c. e 2635 bis c.c., in quanto non si fa più riferimento a coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione e controllo (amministratori, direttori generali, dirigenti, sindaci e liquidatori), ma vengono interessati anche coloro che esercitano delle funzioni direttive presso le società o enti privati, ovvero funzioni di gestione e di controllo non apicali.

L’incriminazione è stata estesa anche ai soggetti sottoposti, ovvero privi di incarichi formali. Questa necessità nasce dal fatto che nella maggior parte dei casi amministratori, direttori generali, dirigenti ecc., soprattutto nell’ambito di imprese medio-grandi, si avvalgono di collaboratori che – di fatto – svolgono gli atti per conto della società/ente e sono coloro che, entrando in contatto con il pubblico, hanno maggiore possibilità di ricavare utilità.

Con il nuovo decreto legislativo, oltre all’ampliamento dei soggetti attivi e passivi, si ampliano anche le condotte attraverso le quali si perviene all’accordo corruttivo.
Infatti, è considerata illecita non solo la ricezione di denaro o altre utilità non dovute, e l’accettazione della promessa, ma anche la condotta di sollecitazione alla prestazione di denaro o di altra utilità.

Non è necessario che queste richieste abbiano un valore predeterminato e neppure che vi sia proporzione tra ciò che viene offerto e la violazione. Si deve trattare di vantaggi, considerati tali dal comune pensiero, che non devono avere necessariamente natura patrimoniale (es. una promozione).

Ai fini della punibilità del reato, a seguito della riforma, non è necessario che sia stato causato nocumento alla società. Tale elemento, limitava fortemente l’applicabilità della norma.
Per quanto riguarda le pene, nel caso di corruzione ex art. 2635 c.c. è prevista la pena della reclusione da uno a tre anni se la condotta è stata posta in essere dai soggetti di cui al primo comma dell’art. 2635 c.c. (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori di società o enti privati), mentre se il fatto viene commesso dai soggetti sottoposti la pena è la reclusione fino ad un anno e sei mesi. La differenza della risposta sanzionatoria deriva dalla qualità di subordinazione dei lavoratori dipendenti, che solitamente hanno scarso margine di determinazione.
Le pene sono raddoppiate se si tratta di società quotate nei mercati azionari (italiani o esteri).

Art. 2635 bis c.c.
Il D.Lgs 38 del 2017 ha introdotto un’ulteriore fattispecie di reato all’art. 2635 bis c.c., ovvero, l’istigazione alla corruzione tra privati.
Questo reato si configura sia nei casi in cui un soggetto interno alla società/ente solleciti infruttuosamente per sé o per altri una promessa o una dazione di denaro o altra utilità per compiere un atto contrario agli obblighi inerenti al suo ufficio o alla fedeltà, sia nel caso opposto, ovvero quando l’offerta, sempre infruttuosamente, provenga da un soggetto terzo, estraneo alla compagine sociale.
Presupposto comune alle due fattispecie è la mancata accettazione della sollecitazione o dell’offerta.
Lo scopo della norma è quello di impedire anche le mere condotte preparatorie alla corruzione.
La pena è quella prevista al primo comma dell’art. 2635 c.c., ridotta di un terzo.


Le disposizioni comuni ai delitti contro la Pubblica Amministrazione modificati dalle norme anticorruzione
Il recente provvedimento anticorruzione L. n. 69 del 2015 ha apportato diverse modifiche al codice penale in relazione alla sospensione condizionale della pena e al ‘patteggiamento’.
Infatti, a seguito della riforma, la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena al soggetto condannato per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (artt. 314, 317, 318, 319, 319 ter, 320 e 322 bis c.p.) è subordinata al pagamento di una somma pari al profitto del reato, ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito.
La riparazione pecuniaria non sostituisce l’eventuale risarcimento del danno ma rappresenta solo una predeterminazione dell’ammontare del danno cagionato.
Essendo la predeterminazione commisurata ad un dato oggettivo, si pongono diversi problemi nei casi in cui i reati contro la pubblica amministrazione vengano contestati a seguito di una semplice promessa di dazione di denaro o altre utilità.
In questi casi sorge il problema di come subordinare il beneficio della concessione della sospensione condizionale della pena al pagamento di una somma di denaro equivalente a una percezione indebita sebbene nei fatti non sia avvenuta.
Stesso problema si pone con il patteggiamento. La nuova legge anticorruzione prevede che quando si procede per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, l’accesso al patteggiamento sia subordinato alla restituzione del prezzo o del profitto conseguito.
Anche in questo caso si presuppone che vi siano elementi oggettivi in grado di quantificare il prezzo o il profitto illecito, ma la quantificazione incontra alcune difficoltà nei casi in cui i vantaggi ottenuti siano semplici favori.
A parere di chi scrive, negare i benefici a coloro che abbiano solo promesso o eseguito favoritismi, senza aver dato luogo a profitti, per consentire il vantaggio a chi abbia riscosso il premio dell’azione delittuosa rappresenta una disparità di trattamento irragionevole.
Sarebbe più logico pretendere, nei casi in cui il reato abbia prodotto un utile concreto e valutabile, la restituzione di ciò che è stato indebitamente percepito al fine di poter fruire del beneficio della sospensione condizionale della pena, nonché per accedere al patteggiamento; viceversa non vi c’è ragione di condizionare i due benefici alla riparazione di un danno che concretamente non si è verificato.