Il reato di tortura

L’introduzione nell’ordinamento italiano del delitto di tortura

Art. 613 bis c.p.: “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.
Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.
Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena e' della reclusione di anni trenta.
Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo.

Il 14 luglio 2017 è entrata in vigore la Legge n. 110 la quale sancisce l’introduzione nell’ordinamento italiano del delitto di tortura, il cui fondamento è ricavabile nella Costituzione (art. 13, co. IV). Con ogni probabilità, i noti fatti del G8 di Genova e i molteplici processi derivanti dalla condotta tenuta dagli agenti di polizia, nonché i richiami delle autorità internazionali, hanno influito sulle scelte del Legislatore.
In realtà, con l’introduzione del delitto di tortura l’Italia ha dato attuazione, con imbarazzante ritardo, alla Convenzione contro la Tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti (CAT), sottoscritta nel 1984 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e ratificata in Italia con la Legge n. 498/1988.
L’articolo 1 della predetta convenzione definisce la tortura come: “qualsiasi atto con il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenza acute, fisiche o psichiche, al fine di ottenere informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa ha commesso, o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o esercitare pressioni, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore a tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da una qualsiasi altra persona che agisca titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”.

L’iter parlamentare che ha condotto alla Legge n. 110/2017 è stato particolarmente tormentato, considerate le molteplici modifiche apportate - alternativamente - dai due rami del Parlamento prima della approvazione definitiva.
Etimologicamente, il termine “tortura” deriva dal verbo “torcere”, che esprime l’atto di piegare con forza, deformandolo, un corpo oppure una volontà. La tortura pertanto è un fatto plurioffensivo, lesivo di una molteplicità di beni giuridici inerenti la sfera esistenziale della vittima, quali l’incolumità psico-fisica, la dignità e la libertà morale.

A differenza di quanto previsto dalla convenzione internazionale (CAT), l’ordinamento italiano ha classificato il delitto di tortura come reato comune, eventualmente aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale dell’autore. Questa scelta, apparentemente, amplia l’ambito soggettivo della perseguibilità del reato.
Tuttavia, il problema di questa impostazione normativa deriva dalla mancata previsione del divieto di bilanciamento fra la circostanza aggravante sopra citata con le circostanze attenuanti: Infatti, a fronte di un eventuale giudizio di bilanciamento – anche in equivalenza – fra le circostanze attenuanti con la predetta circostanza aggravante, verrebbe di fatto vanificato l’effetto di aggravamento previsto dalla norma.

L’ambito delle persone offese dal reato, invece, è stato individuato in modo estremamente dettagliato atteso che si fa riferimento ai soggetti privati della libertà personale e quindi a coloro i quali si trovino in condizioni di detenzione, anche temporanea; a soggetti affidati alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura, o assistenza del soggetto attivo ed infine a soggetti che si trovino in condizioni di minorata difesa.

L’estrema cura operata dal Legislatore nella descrizione dei soggetti passivi non esime la norma da una serie di difficoltà operative. Infatti, le modalità della condotta sono state individuate nell’uso di violenze o minacce gravi ovvero nel fatto di agire con crudeltà. Il concetto di “crudeltà”, elemento tipico di fattispecie, è stato descritto dalla Suprema Corte di Cassazione, nell’ambito dell’interpretazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4, c.p., come “circostanza caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole, che deve essere oggetto di accertamento alla stregua della modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti le note impulsive del dolo”.
Il delitto è strutturato come reato di evento, in quanto la condotta deve cagionare “acute sofferenze fisiche ovvero un verificabile trauma psichico”.

Ai fini della configurabilità del reato è necessaria la presenza di condotte plurime, a meno che l’unica condotta abbia determinato – da sola – un trattamento disumano e degradante. Tali elementi normativi devono essere delineati attraverso il richiamo dei principi elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo in materia di articolo 3 CEDU.
Quanto all’elemento soggettivo è richiesto il dolo generico, a differenza di quanto previsto nella CAT.
Sotto il profilo sanzionatorio, il legislatore ha previsto la reclusione da 4 a 10 anni per l’ipotesi base del reato, e la pena da 5 a 12 anni di reclusione nel caso in cui la fattispecie venga posta in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.

Sono previste ulteriori aggravanti nel caso in cui la tortura sia offensiva dell’incolumità fisica o della vita: nello specifico, se dalla tortura deriva una lesione personale (grave o gravissima) è prevista un aumento di pena di un terzo; se dalla tortura sia derivata la morte come conseguenza non voluta la pena di trenta anni di reclusione, mentre se dalla tortura sia derivata la morte come conseguenza voluta la pena è l’ergastolo.